INTERVISTE

Quando la tecnologia non basta

Il Prof. Claudio Pedone, del Campus Biomedico di Roma – UOC di Gerontologia, parla dei progetti in fase di sperimentazione presso il Centro Ricerche della sua Università, e spiega che per ottenere dalla telemedicina reali vantaggi, sia clinici sia economici, il solo impiego di strumenti innovativi non è sufficiente. È necessario invece lavorare sul modello sanitario, creando un sistema di servizi integrati che ruotino intorno alle applicazioni tecnologiche.

 

Al Campus Bio-Medico di Roma crediamo molto nelle potenzialità della telemedicina in ambito prevenzione, e attualmente siamo impegnati con diverse sperimentazioni sul fronte delle patologie croniche.
L’esperienza più interessante fatta in questo campo riguarda i pazienti anziani affetti da scompenso cardiaco, con la realizzazione di uno studio che ci ha permesso di valutare l’effetto dell’integrazione di un sistema di telemonitoraggio dei parametri vitali con il supporto telefonico.

I risultati sono stati molto incoraggianti, evidenziando una significativa riduzione dei ricoveri ospedalieri e del rischio di morte a 6 mesi.

 

Telemedicina: oltre la tecnologia
Tutto ciò porta a un discorso più generale sulle incognite legate alle applicazioni di telemedicina. In Italia, come nel resto del mondo, si stanno infatti moltiplicando le sperimentazioni in questo ambito, ma quasi sempre con un problema di fondo.

Si tende cioè a valutare l’efficacia e la validità dei device, ma non si lavora sul modello sanitario che dovrebbe essergli costruito intorno per garantirne un utilizzo ottimale e realmente vantaggioso.

Sovrapporre uno strato tecnologico sui servizi esistenti, che nel frattempo continuano a lavorare come sempre, non è la strategia vincente.

Diversi studi dimostrano infatti che le sperimentazioni dai risultati più incoraggianti sono quelle che non considerano la telemedicina come mera tecnologia, ma offrono un sistema sanitario ad hoc, integrato con l’attività di monitoraggio, e di cui applicazioni e device digitali siano elemento integrante ma non esclusivo.

 

Un esempio da non seguire

La ragione per cui di telemedicina si parla da decenni, ma poi in concreto viene poco utilizzata, è esattamente questa: non basta conoscere le tipologie di pazienti che si potrebbero giovare delle attività di telemonitoraggio, ma è necessario creare parallelamente un servizio di assistenza integrata con queste ultime.

L’esperienza più negativa in tal senso appartiene alla Gran Bretagna, dove qualche anno fa è stata condotta un’ampia sperimentazione con il coinvolgimento di moltissimi medici di base.

Il sistema sanitario fornì loro una piattaforma completa di telemedicina per varie patologie quali diabete, BPCO, scompenso cardiaco, ecc., convinto che quella fosse la strada giusta per risparmiare mantenendo un buon livello di qualità delle cure, ma alla fine di questo grande sforzo i risultati furono inferiori alle aspettative. E la ragione è proprio quella prima riportata: uno strumento tecnologico in più non fa la differenza. È soltanto dall’implementazione di un modello di sanità differente che dall’uso della tecnologia si possono trarre dei vantaggi di concreta utilità.

 

Monitoraggio, e poi?

Per fare un esempio più specifico, i pazienti cronici (BPCO o scompenso cardiaco) tendono ad andare incontro a riacutizzazioni e bruschi peggioramenti, motivo dell’elevato numero di ricoveri di questi soggetti.

I sistemi di telemonitoraggio riescono a cogliere in modo tempestivo ogni aggravamento del loro stato di salute, ma nel momento in cui viene rilevata una criticità dei parametri, inserire il paziente nel percorso convenzionale di cura, ad esempio tramite l’accesso al pronto soccorso, annullerebbe i vantaggi della tecnologia.

 

Un algoritmo “intelligente”

Un secondo progetto di telemonitoraggio che stiamo seguendo al Campus riguarda i pazienti di BPCO, ed è rivolto a cogliere in maniera tempestiva eventuali peggioramenti di salute, così da prevenire guai peggiori, come l’ospedalizzazione.

Abbiamo appena concluso la fase di sperimentazione, che ha portato allo sviluppo di un algoritmo in grado di mimare la decisione del medico di fronte alla lettura di alcuni parametri: in pratica il sistema riesce a predire quello che farebbe il medico nella stessa situazione, riconoscendo eventuali segnali di allarme.

Partendo da questo algoritmo stiamo cercando di capire se sia possibile predire in modo automatico la riacutizzazione, ovvero il peggioramento effettivo dello stato di salute, realizzando una sorta di diagnosi assistita in remoto dall’intelligenza artificiale.

 

Quale futuro?

La prospettiva di penetrazione del digitale applicato alla salute appare oggi di difficile interpretazione.

La tappa cruciale sarebbe quella del riconoscimento della telemedicina da parte del sistema sanitario regionale, ovvero comprendere quanto il circolo virtuoso monitoraggio-prevenzione, innescato dalle nuove tecnologie, possa rappresentare un vantaggio per la salute pubblica, anche di carattere economico.

Da questo punto di vista si sta avvertendo oggi forse un maggiore interesse da parte delle assicurazioni private, ma si tratta per ora di “suggestioni” più che di investimenti concreti per il futuro.

Per finire si può dire che la cosa più interessante nel futuro della telemedicina è probabilmente l’integrazione con la domotica. Non saranno soltanto gli apparecchi medicali tradizionali, ma una serie di sensori ambientali, a fornire informazioni sullo stato di salute del paziente, inclusa alimentazione, stile di vita, ecc.
Una vera rivoluzione nel modo di fare medicina e prevenzione.

 

 

Immagine – credits: Università Campus Bio-Medico, Roma

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